giovedì 24 giugno 2010

29. Oggi è festa per tutti

Passi pesanti, respiro pesante, odore di sigaro. Papà si è alzato. Non ho ricordi di averlo visto appena sveglio prima d’ora. Non accade mai che si alzi dopo di me né che prenda il caffè del mattino seduto accanto a qualcuno che non sia mamma, infatti appena mi vede assume un’espressione quasi contrariata. “Buondì marito.” Lui fa un cenno con il capo e gira intorno al tavolo per raggiungere la sua sedia. Ci si piazza davanti con i palmi puntati ai pomelli dello schienale. Guarda in basso. Mamma si alza a scaldare il caffè. Io con gli occhi fissi al cardo che ho in mano: “Buongiorno papà. Già sveglio? Oggi è festa…” Lui arriccia la bocca addosso al naso, poi sposta la sedia e mentre ci si accascia soffia via poche stanche parole : “E’ stata una lunga notte…” Io lancio un rapido sguardo a mamma che, portando il caffè, me lo restituisce altrettanto rapido: “Hai visto? capita…” Papà appare interdetto davanti a questo nostro scambio ma non dice nulla. Con i gomiti inchiodati al tavolo non fa che stropicciarsi la faccia: gli occhi, la fronte, il naso, i baffi, il mento, il collo per poi scendere ad imbracciare la tazza fumante che si aggiunge alle tante barriere già presenti tra noi. Un lungo silenzio mentre prende il suo caffè … solo il rumore molesto dei suoi sorsi.
Finisce gustando anche l’ultima goccia e già con l’altra mano fruga in tasca alla ricerca del suo fidato mozzicone. Fra la tasca e la bocca papà è già in piedi diretto la porta. Io rimango di pietra. Ma come? Tutto qui? Neanche uno straccio di rimprovero? Prima che faccia un passo in più scatto in piedi incredula di averlo fatto: “Papà…” Lui si volta sulla soglia e mi guarda severo. “Non dovete dirmi nulla?… avete qualcosa da ordinarmi?” Masticando il suo sigaro mi volta le spalle: “No. Se ne parlerà domani… Oggi è festa per tutti.”

mercoledì 23 giugno 2010

28. Fiore di cardo

Arrivo in fondo alla scala e tutte le certezze che solo un attimo addietro mi facevano tanto chiasso nella testa e sotto ai piedi sono polvere. Mamma sta al tavolo, sfilaccia i cardi. Io, zitta ed insonnolita, siedo di fronte a lei che mi scruta appena il tempo di un’occhiata e sa già tutto di me. “Buongiorno Biancaspina…” E’ così che mi chiama quando l’ inquietudine mi arriva alla faccia prima che riesca a farlo io. La guardo con un mezzo sorriso arrancato che lei evidentemente percepisce dai pori della pelle visto che non stacca gli occhi dall’amaro ortaggio! “Come mai già alzata? Oggi è festa…” Come se non lo sapessi… “Ho avuto una nottataccia…” Un breve silenzio. “Capita… Tieni và, aiutami con i cardi... che ormai la notte è andata…” E so che questo è tutto quanto mi può dare: un cartoccio di cardi da sfilare… insieme a lei. Ed io lo prendo… e sfilo, insieme a lei.

27. Cuore di sposa

Apro gli occhi. Con un gesto secco e troppo ampio mi libero dalle coltri. Franca protesta scocciata e si aggomitola stretta stretta ficcandosi sotto, ai piedi del letto. Il freddo mi rattrappisce. Lo stomaco si contorce intorno all’amaro di questa nottata. Devo proprio affrontarlo questo giorno infame? Mi tocca. Mi avvicino alla finestra e guardo fuori dalla fessura di un balcone mezzo scassato. Passano due barche di pescatori di ritorno dalla notturna. Bandierine colorate sventolano a prua. Oggi c’è sagra. Ecco qua: un allegro momento di aggregazione in cui tutto il paese saprà ben di che parlare! Ed io, bella statuina, guardo la mia vita disfarsi come un maglione di lana vecchio che probabilmente diventerà un calzettone per la caccia in palude! Mi vesto fiaccamente e inizio la mia via crucis verso quest’orribile sorte. Ogni gradino di queste scale mi parla di rabbia ed ingiustizia, mi strilla in faccia che non può essere così. Io non sono un calzettone! Sono una sposa pura e perfetta, anche il mio nome è d’accordo con me. Chiunque creda il contrario non sta guardando il mio cuore ma il marciume che galleggia nel suo!

domenica 20 giugno 2010

26. Bisbigli

E’ sera tardi. Franca e Dalia sono già nel mondo dei sogni, lo sento dal loro respiro. Io invece non riesco a dormire. Da qualche minuto arrivano bisbigli di baruffa dalla camera di mamma e papà. Accade di rado. Di solito non litigano per sciocchezze. Che sarà successo? L’inquietudine mi assale e non posso nemmeno muovermi tanto siamo strette in questo letto… devo alzarmi! Scosto le coperte in punta di dita per non svegliare le piccole. Nel buio mi avvicino alla soglia facendo attenzione a mettere i piedi solo sulle tavole mute… ormai le conosco a memoria. Socchiudo la porta sollevandola con forza dalla maniglia perché non sfreghi sul pavimento. Trattengo il respiro per sentire meglio. I bisbigli si fanno più chiari: “Oh insomma Piero! … … … più che rispettabile! E poi … … … neanche a sostanze stanno male!” Ascolto con gli occhi sgranati nell’oscurità. “Anna! … … … non è questione di rispettabilità o denaro! … … … Non tollero… … … mia figlia … … … quel marcantonio là! … … … sotto gli occhi di tutti … … … fosse padrone di mezza isola! ...Non è serio! Quello non è un ragazzino! ”
Mio Dio! L’occhio maligno dell’isola non mi ha risparmiata! Richiudo la porta e, paonazza, rilascio il respiro prima di esplodere. Stupida stupida stupida! Lo sapevo che finiva così! Faccio un passo indietro ma una tavola sfacciata urla il mio sgomento. Maledetta traditrice! Lo spavento mi strattona verso il letto che m’inghiotte. Neanche l’ombra di una voce. Me ne resto irrigidita tra il rancore e lo sdegno per quest’isola pettegola che ha macchiato il mio destino. Non voglio che venga domani. Con che faccia scenderò da quelle scale? Come sosterrò gli occhi di mio padre? Come potrò ignorare le maldicenze del paese? Le ore passano mentre il cuore mi percuote i pensieri senza trovare un angolo tranquillo dove riposare. Sono sfinita... ma finalmente la luce dell’alba sveglia Gesù che dalla croce si prende tutti i miei tormenti e mi rimbocca le coperte.

venerdì 18 giugno 2010

25. Pioggia d'ottobre

“Dunque non ne sapete niente…” Giovanni è come pietrificato: “Spiegatemi per favore.” Io tentenno intimidita dal suo gelo: “Antonio mi ha fatto recapitare una lettera per mano di Rita, sua sorella, circa una settimana prima che mi portaste la Vostra…” Mi guarda come se si aspettasse il peggio: “Una lettera… di che genere?” Non c’è un altro modo per dirlo e come se non bastasse comincia a piovere: “Direi… una dichiarazione d’amore.” Giovanni porta una mano alla faccia e ci si preme le tempie. Espira pesantemente. “E Voi che avete fatto?” Mi sento accusata: “Proprio niente. Non gli ho nemmeno risposto… mi ha colta davvero di sorpresa…” Sembra molto provato. Ha l’aria di uno che sta capendo tante cose tutte insieme e parla come se stesse pensando a voce alta: “Antonio era a conoscenza dei miei sentimenti e che avrei scritto la lettera. Ero io a non sapere nulla di ciò che gli passava per la testa e per il cuore. Mi ha voluto battere sul tempo.” Non riesco a crederci: “Dite che l’ha fatto di proposito?” Lui sembra ricomporsi: “E’ meglio che io non dica nulla prima di aver parlato con lui.” Intanto la pioggia prende corpo. Lui ritrova un sorriso per me. Solleva la mia mano e la sfiora con la guancia. Io assaporo quell’intimo gesto per tutta la sua durata. “Ora è meglio che andiate, casa Vostra è poco distante.” Mi congedo con un cenno del capo e proseguo da sola. “Correte o vi bagnerete!” Adoro la sua premura.

martedì 15 giugno 2010

24. Riva o interno?

“Spero la mia compagnia Vi sia gradita, magari per un piccolo tratto, mentre andate verso casa…” Io sorrido compiacente: “Riva o interno?” Lui infila le mani in tasca: “Conducetemi Voi.” Mi fermo per un attimo, un po’ disorientata da quella inconsueta concessione. Non capisco se mi lusinga o mi infastidisce. Il valzer diviene una tarantella e con un piglio del quale io stessa mi sorprendo: “Quand’è così meglio allungare un po’: riva. Ho alcune cose da chiederVi.” Lui appare lievemente turbato, non so se più dal tono o dalle parole: “Chiedete. Spero di avere le giuste risposte.” Io peccando di civetteria: “Questo dipenderà solo da Voi.” Lui tace e questo è sufficiente a farmi abbassare immediatamente la cresta: “Non preoccupateVi, non è nulla di così grave ma una cosa me la dovete proprio dire perché ancora adesso non riesco a spiegarmela.” Ora sembra più curioso che preoccupato: “Ditemi, Vi prego!” Ai piedi del ponte fermo le danze. Mi rivolgo verso di lui e con un pizzico di incertezza: “Due settimane fa ho ricevuto la vostra splendida lettera e Voi sapete quanto mi abbia resa felice, ma poi non Vi siete più fatto vedere, come mai?” Lui si fa serio e chiude gli occhi sotto il peso della colpa: “Perdonatemi. Ve lo dirò ma prima ho bisogno del vostro perdono.” Io rimango confusa davanti alla sua richiesta: “Va bene. Siete perdonato però non tenetemi sulle spine…” Lui con un pizzico di vergogna elude i miei occhi : “Temevo. Non sopportavo l’idea di un Vostro rifiuto. Sulla spinta della passione mi sono lasciato trasportare ma quando ci si espone così è fin troppo facile essere colpiti ed io non volevo morire. Preferivo vivere di attesa ed illusione. Ora Ve l’ho detto e di nuovo sono senza difese davanti a Voi.” Quella disarmante rivelazione uscita candidamente dalle sue labbra mi inzuppa il cuore di tenerezza: “Come avrei potuto rifiutarVi? E perché avevate tanti dubbi? Forse a causa di Antonio?” Lui mi guarda dubbioso: “Antonio?” Io incalzo: “Si, parlo della sua lettera!” Lui brancola nel buio: “Quale lettera?” Mi chiedo come sia possibile: “Devo dedurre che non ne siete al corrente…” Lui, lapidario: “Non sono al corrente di nulla che accosti il Vostro nome a quello di Antonio.”

lunedì 14 giugno 2010

23. Unduèttre

Oggi, finiti i servizi alla locanda, appendo il grembiule e saluto tutti. Esco con passo spedito mentre ancora sto ammantando lo scialle ma solo dopo qualche metro un cappello di mia conoscenza scuote la certezza del mio trantran quotidiano. Sotto quella tesa, un sorriso che è un abbraccio. Sotto quel sorriso, spalle possenti fasciate da un cappotto scuro. Sotto quelle spalle, braccia conserte a nascondere mani troppo grandi. Giovanni non è lì per caso. Sta aspettando me, appoggiato al paletto dell’approdo. La mia andatura si fa incerta ma procedo, con un po’ di imbarazzo, verso di lui che, morbido, mi si accosta. Neanche una parola. Ci guardiamo negli occhi a lungo come mai era accaduto. Il silenzio è dolce tra noi, non ha peso. Il grammofono della signora Rosa oltrepassa le finestre chiuse ed una musica ovattata ci raggiunge. Un respiro più profondo degli altri cade in levare sulla nota d’apertura di una nuova melodia che ci spalanca le porte di un mondo lontano e… unduèttre… noi ci entriamo a passo di valzer.

domenica 13 giugno 2010

22. Condivisione tra pari

Stamane uscendo dalla mia stanza sento uno scrosciar di libri. Proviene dalla camera delle grandi. La porta è aperta, mi affaccio: “Che succede?” Norma trasale mentre ancora si copre dalla frana di cultura precipitatale addosso. E’ sopra l’armadio che tiene i suoi “sacri”testi . Li nasconde perché mamma e papà non vedono di buon occhio i suo interesse per la politica. Qualche foglio ancora svolazza per la stanza e lei si affanna a raccoglierli. E’ evidente che la mia presenza la innervosisce: “Ti aiuto?” Lei si affretta a recuperare i suoi tesori: “No… grazie… faccio da me”. Io entro nella stanza e siedo sul suo letto: “Stai tranquilla, a me non interessa quello che leggi, non lo dirò a mamma”. Lei, con aria circospetta, rilassa le spalle ed emette uno sbuffo di sollievo: “Grazie … Se li scopre va a finire che me li butta nel canale! Ti devo un favore…” Con il piede spinge la piccola slavina sotto l’armadio e viene a sedersi accanto a me: “…A volte mamma non vede più in là del proprio naso…” Io le sorrido complice: “Se davvero fosse come dici quei libri sarebbero spariti già da tempo… mamma non è stupida…” Lei alza un sopracciglio e guardando in alto: “Uhmm… si, beh… forse non lo è… ma tu? Che mi dici con quell’aria stralunata? ” Io tocco e fuggo una risatina incontrollata che mi incendia la faccia: “Niente, che ti devo dire?”Con le dita tormento l’intimo scritto che nella tasca sta per fare capolino mentre seguo il bagliore di follia che spinge il suicida a lanciarsi nel vuoto. Lei, con fare canzonatorio, mi picchietta sulla fronte il suo indice inquisitore di sorella maggiore: “Non me la racconti giusta. Vuota il sacco piccoletta!” Ma con quel dito spinge indietro ogni mia voglia di condivisione fra pari ed ingoio l’accorata confessione che un attimo prima avevo bella e pronta lì a pizzicami la punta della lingua. Mi alzo e vado verso la porta. Sulla soglia mi giro e guardandola dritto negli occhi: “Non ti credere tanto più donna di me cara Norma… e comunque sono due i favori che mi devi.” Lei rimane atterrita dalla mia inconsueta risolutezza. Scendo, e ad ogni gradino rafforzo il concetto che mi si fa sempre più chiaro in testa: non voglio sporcare nel pettegolezzo ciò che è puro e perfetto. Resterà solo mio. Anche se a volte mi sento scoppiare, resterà solo mio. E di Giovanni.

sabato 12 giugno 2010

21. La veranda

A casa nostra c’è un’ insolita stanza. Noi la chiamiamo “veranda” ma somiglia più a una serra. Insolita sì, o quantomeno originale. Non se ne trova un’altra in tutta l’isola. E’ grande quanto tutto il resto della casa. Sta al piano terra e dà sull’orto. Su tre lati ha vetrate intelaiate da una struttura di metallo tinteggiato verde prato. Pavimento di marmo alla Veneziana. D’estate è completamente vuota. Solo un paio di sedie in ferro bianche scrostate dal sole, tanto gracili quanto pesanti. Dimenticate lì. Scomposte. Non ci va nessuno, è come entrare in un forno. D’inverno diventa un labirinto boscoso. Mamma e papà ci portano tutte le piante dell’orto per il “letargo” invernale al riparo dalle gelate così diviene il luogo perfetto per le piccole che ci giocano a nascondino con gran cautela a non spezzare rami o foglie sennò: “poi mamma chi la sente!”
Una volta ci ho pure visto mia sorella Norma… con Corrado, e ben prima che fossero fidanzati in casa! Lo ricordo come fosse ora. Era il primo di novembre e, come domenica prossima, cadeva la Sagra di Ognissanti. Tutto il paese stava al campo della chiesa avvolto nel fumo del pesce arrostito e sazio del denso odore di fritto. Una bonaria ressa stonava canti alticci in faccia all’imponente massa di polenta in fette già tagliate a filo, pronte da prendere e addentare. Era il giorno dell’anno che tutti aspettavamo. Era il giorno dell’abbondanza. Per l’occasione molti pescatori offrivano una parte del loro bottino e ogni famiglia portava un litro di olio nuovo e una bottiglia di vino. Nell’aria tutta l’euforia e l’ebbrezza di gente che sembrava dover essere ricompensata, in una sola sera, delle fatiche di un anno intero. Non era ancora buio quando mamma mi ha chiesto di fare un salto a casa per prendere un vaso di marmellata di pesche che aveva promesso alla Signora Rosa, la padrona della locanda, e che aveva dimenticato. E’ stato fin troppo facile veder sbucare da quel groviglio di piante, la testa di Corrado alto com’è, per quanto accovacciato! Quei due stavano troppo vicini! Ma la scena era schermata dal fitto fogliame e quindi non posso e non voglio pensare che stessero facendo nulla di diverso dal parlarsi all’orecchio. Questa cosa la so solo io. Nemmeno a Norma l’ho mai detto… anche perché con quel caratterino è meglio tenersela buona! Ricordo però che al tempo mi sono sentita in diritto di giudicarla… ma ora la capisco molto di più.
Poche settimane dopo, Corrado è venuto a chiedere a papà il permesso di frequentarla. Da allora sono fidanzati ufficialmente e mi sa che fra non molto annunceranno il loro matrimonio.
Sono ben assortiti quei due e si vogliono un gran bene, si vede! E poi Corrado porta l’allegria a casa nostra. Ogni volta che c’è qualche festa e ci viene a trovare ci travolge a suon di barzellette, specialmente quando mio padre gliene versa uno di troppo!

20. Il rientro

Galoppo. Trotto. Passo. Ho il fiato corto. Al capitello la madonnina azzurra mi guarda. Non riesco ad ignorarla ma mi sorride ed io ricambio. Proseguo verso casa. Un passo un pensiero: Ora che accadrà? - Quando lo rivedrò? - Non gli ho chiesto come mai era sparito - “Vai angelo, che ti staranno aspettando” - Devo togliere il pettinino prima di rincasare - Non gli ho chiesto di Antonio - “Vai angelo, che ti staranno aspettando” - Forse ho fatto qualcosa di sconveniente - Ci avrà visti qualcuno? - La signora Rina forse! - “ Vai angelo, che ti staranno aspettando” - Devo togliere il pettinino prima di rincasare - I suoi occhi - Le sue mani - “ Vai angelo, che ti staranno aspettando”.
Davanti al cancello di casa cerco di darmi un contegno. Faccio un bel respiro e rilasso la faccia per eliminare ogni residuo di quel sorriso euforico che mi sento dentro e somigliare di più alla Bianca di un’ora fa. Entro. Mamma sferruzza calze di lana rosse: “Va meglio?” Io tolgo lo scialle e lo appoggio sulla sedia: “Si, avevi ragione. Una passeggiata mi ha fatto bene”. Le schiocco un bacio sulla guancia e mi dirigo verso le scale. Lei guarda dalla finestra continuando a sferruzzare e con tono monocorde m’interpella: “Che hai in testa?” La sua domanda mi arriva come una stilettata. Non posso crederci: non l’ho tolto! “...No, niente... un fermaglio... l’ho trovato per terra...”. Continuo a salire le scale con accorta indifferenza. Non sento replica. Solo un botta e risposta tra il cigolio dei gradini sotto i miei piedi e lo scricchiolio della sedia sotto le sue ossute terga.

19. L'incontro

Uscita dal cimitero decido di allungare il mio tragitto proseguendo sulla strada anziché tornare indietro, che se arrivo a casa troppo presto mamma pensa male. Avanzo quindi sul viale alberato tra il grigio del cielo e il giallo delle foglie cadute. Da distante, ogni tanto, uno sciacquar di remi. Svolto l’angolo. Col naso ben dentro lo scialle alzo gli occhi. In lontananza uno scuro cappello spicca in vetta ad un’ombra massiccia. Un brivido mi drizza la schiena. L’aria mi gela la faccia ancora umida del mio respiro. “Mio Dio, è Giovanni.” D’istinto caccio una mano in tasca e ne estirpo quei denti di primule che ormai avevano messo radici. Li tengo stretti fino a farmi male. Ci camminiamo incontro restando ai due lati opposti del viale ma più si accorcia la distanza più la traiettoria si fa sbieca e i passi rallentano. In un tempo troppo breve ci troviamo l’uno di fronte all’altra. Io non riesco a fare nulla se non guardarmi i piedi con tutta la testa. Lui osserva il mio silenzio. La mia mano sbuca timida da dentro lo scialle e porta alla luce il suo prezioso dono. Lui coglie quei fiori che ben conosce e, delicato, li appunta ai miei capelli. Seguo con gli occhi quel gesto che scendendo sulla guancia diventa una carezza e prima che possa allontanare la sua mano vi adagio sopra il mio piccolo palmo e ci affondo tutta la faccia.
Ora siamo occhi negli occhi e mani nelle mani. Lui mi sorride ed io mi sento a casa. Da qui tutto comincia. Rinasco donna in un nuovo grembo: gli occhi suoi, che scoprono in me più di quanto io sappia.
Dalla finestra aperta della casa all’angolo giunge un sonoro starnuto della signora Rina a spezzare l’incanto.
“Vai angelo, che ti staranno aspettando”.
Io non trattengo l’energia e parto al galoppo. Prima di svoltare faccio un cenno con la mano.
Tutto il mio corpo ride.
Aveva ragione mamma. A camminare ci si scalda l’animo.

18. Gli amati defunti

E’ di nuovo domenica. Oggi si visitano gli amati defunti ma stamane dopo messa, col permesso di mamma, sono tornata subito a casa in preda a un gran mal di testa misto a sconforto. Ha cominciato a fare freddo e mi sono ammalata di malinconia. Giovanni è svanito nel nulla, da dieci giorni nessuno lo vede più. Sarà ammalato anche lui? Sarà partito? Non so che pensare.
Sono le cinque del pomeriggio. Me ne sto rannicchiata stretta al mio scialle sulla sedia della cucina. Mamma pela le patate. Dalla finestra guardo la giornata farsi sempre più grigia. Il rumore del coltello che spoglia i tuberi scandisce il mio tempo.
“Bianca togli i piedi da quella sedia” mi rimprovera mamma senza voltarsi. “Ormai sei una donna, ti pare il modo?”. Ed io: “Ho freddo”. Mamma mi lancia uno sguardo obliquo. Io senza guardarla faccio scivolare i calcagni fino al margine della seduta e li perdo per un attimo nel vuoto prima di accompagnarli a terra. Mi scappa un timido sbuffo.
Mamma inspira profondamente e si gira verso di me col coltello in una mano e una patata nell’altra. Io con aria colpevole raddrizzo la schiena accennando un mezzo sorriso.
“Bianca, stamattina non sei andata al cimitero. Vacci ora prima che chiuda che a camminare ti scaldi l’animo!” Io la guardo cercando un po’ di compassione ma lei ha deciso così. Mi alzo pesantemente dalla sedia. Lei torna alle sue faccende. Io con muta rassegnazione prendo lo scialle più pesante e mi ci avvolgo. Lo adagio sulle spalle e lo tengo anche davanti al viso per poterci respirare dentro. Mi avvio in una mesta processione verso gli amati defunti. Conto 164 sassi sulla strada da casa al cimitero. Entro. Arrivo in fondo al vialetto dove di solito comincia il giro degli onori ai trapassati. Con la mente percorro il solito tragitto e li saluto tutti: Nonna Elena, Zia Antonia, Zio Bruno, il cugino Luca nato morto… non dimentico nessuno. Ora però non voglio più restare. Giro i tacchi e da dove sono arrivata me ne torno.

17. Una donna

Oggi sono una donna.
Nella sua lettera Giovanni mi ha parlato come ad una donna ed io tutto d’un tratto mi sento perfetta in questo ruolo. La sua donna.
L’avrò letta cento volte quella lettera. Ogni parola. Ogni accento. Ridisegno incessantemente il getto dell’inchiostro su quella carta leggera, ne ripercorro il viaggio a ritroso; mi infilo in quella penna e posso sentire il calore di una mano grande, il pulsare delle sue vene, il gorgoglio del suo sangue, la trepidazione del suo cuore.
127 parole occupano la mia mente. Non c’è spazio per nient’altro se non, ogni tanto, per il morbido crepitio di un foglio ormai logoro nella mia tasca sinistra ed il dolce pizzicar di denti del giardino di primule nascosto nella mia tasca destra.

16. Il dono

Per fortuna in casa non c’è nessuno a parte mamma che sta indaffarata in cucina. La aggiro uscendo dalla veranda. Mi fermo al cancello. Arriva qualcuno. E’ Corrado, il fidanzato di mia sorella Norma, che passa in bicicletta. Appoggio le spalle al muretto come se fossi sempre stata lì. Do un’occhiata rapida al pacchetto. C’è ancora. Corrado passa davanti a me. Lo saluto con la mano. Non ha notato niente. Non c’è più nessuno. Mi avvio cauta verso la riva. Mi accovaccio abbracciandomi le ginocchia. Preso. Tengo il pacchetto premuto sul ventre coprendolo con le braccia e filo via. Salgo le scale al ritmo impazzito del mio cuore. “Dio aiutami!” Arrivata nella mia stanza lo poso sul letto e cerco di riprendere fiato. Ripenso allo sguardo serio di Giovanni e non so più se voglio aprirlo. E’ una piccola scatola avvolta in un bianco tessuto d’organza e fermato con un prezioso nastro rosa. Non ci può essere nulla di brutto in un pacchetto così. Prendo coraggio. Snodo adagio il nastro e svolgo il tessuto. Ne esce un cofanetto di legno con sopra incisa una frase “Qui dentro c’è il mio cuore ”Apro. Rimango estasiata. E’ il più meraviglioso oggetto che io abbia mai visto. Un pettinino bianco perlato ricoperto di delicate primule di raso e pietruzze luccicanti. Lo appunto subito ai capelli e corro allo specchio. Mi sento una sposa. Torno sul letto e vedo che nel cofanetto c’è anche una busta piegata in due. E’ una lettera.

“Mia Amata,
se state leggendo queste righe forse avrete almeno considerato di accettare il mio piccolo dono e se insieme ad esso voleste accogliere anche tutto l’Amore che ho per Voi mi rendereste l’uomo più felice al mondo.
I miei sentimenti si scrivono da soli tanto è il trasporto che ho verso di Voi.
Lasciate che io mi perda nella gioia dei Vostri occhi.
Lasciate che io mi desti al tintinnio delle Vostre risate.
Lasciate che io raccolga le vostre lacrime e ne faccia acqua fresca da bere d’estate.
Lasciate, Vi prego, che io mi prenda cura di Voi per l’eternità e so che tutta la mia vita acquisterà un senso.
La Vostra felicità è la mia.
Non dite nulla. Io capirò.
Giovanni”

Passa una lacrima sulla mia faccia, sulle labbra si fa dolce e diviene una carezza.

15. Il pacchetto

Sono passati otto giorni dall’arrivo della lettera di Antonio. Ho evitato accuratamente di incontrarlo e non gli ho ancora dato una risposta ma forse dovrei. Del resto che mi ha fatto quel poveraccio? Il fatto è che ancora non ci vedo chiaro in tutta questa storia. Certo è inutile farlo patire solo perché mi ha colta impreparata. Non l’ho mai notato prima e non è che cambi qualcosa perché ora mi ha fatto la sua dichiarazione, tanto più che speravo la lettera fosse di Giovanni! Giovanni, non so che darei per sapere che gli passa per la testa. Forse niente, è questo il vero problema. Mentre passeggio su e giù nella mia stanza rimbalzando fra mille perché, quasi per inerzia do una sbirciatina dalla finestra. Punto lo sguardo lontano e lo abbasso distrattamente verso riva quando d’improvviso un colpo al cuore. E’ lì. Giovanni. Sta piantato lì e guarda verso la mia finestra. Guarda me. Io trattengo il respiro tanto è lo stupore. Lui tira fuori qualcosa dalla tasca della giacca. Sembra un pacchetto bianco. Lo posa a terra, in bilico sulla riva del canale. Alza di nuovo la testa verso me e con gli occhi mi attraversa l’anima. Rimango come paralizzata. Un’ attimo dopo se ne stava già andando ed io stavo già scendendo le scale due a due per andare a salvare il pacchetto dalle acque.

14. Il dubbio

Mi scoppia la testa. Non faccio che pensarci. Ripasso con la mente ogni momento con Giovanni. Da quando l’ho notato per la prima volta fino agli ultimi mesi durante i quali i nostri atteggiamenti si sono un po’ sciolti e abbiamo cominciato ad aprirci cautamente l’uno verso l’altra, salutandoci e sorridendoci più apertamente anche se sempre da lontano. E’ vero che quando ci troviamo a pochi metri di distanza i nostri sguardi si ritraggono come fanno le lumache se le tocchi, ma quando passa col battello o cammina in fondo alla strada ormai vedo che mi cerca e ci scambiamo sempre un esplicito segno di saluto. Non significa niente? Me lo sono inventata? E poi non so capire quando e come, magari senza rendermene conto, io possa aver dato anche la minima speranza ad Antonio. Mi pare che vada tutto alla rovescia! Quei due sono sempre insieme. Possibile che non si confidino almeno un po’? Possibile che entrambi siano segretamente interessati a me? Quantomeno improbabile. Forse ho davvero immaginato tutto. Forse devo smantellare questo castello.

Nei giorni successivi ho cercato di scrollarmi di dosso la polvere magica di un sogno che mi stava affondando. Mi sono chiusa in un tombale silenzio di parole e di gesti. Ho lavorato tanto, ma non ho resistito a qualche spiata negli orari giusti, un po’ per abitudine un po’ perché proprio non ci riesco a lanciare una secchiata d’acqua su queste braci che ho sepolte in fondo al cuore.

13. La lettera

Si sta facendo autunno e il lavoro nei campi lentamente diminuisce. Spesso vado alla locanda per dare una mano con i servizi. Mamma mi ci manda perché è un modo come un altro per guadagnare qualcosa in tempi di magra e poi la padrona mi ha preso in simpatia e qualche volta mi da pure una mancetta extra. Anche alcune amiche mie coetanee ci vengono e così diventa un’occasione per passare qualche ora in compagnia specialmente quando ci fanno lavare le lenzuola nella zona esterna sul retro, dove c’è più possibilità di scambiare qualche chiacchiera. Anche se il lavoro è molto pesante le ore passano veloci fra una risata e l’altra. Oggi mi occupo del servizio ai tavoli insieme a Rita. Mentre ci incrociamo Lei si avvicina con fare furtivo e mi mette in tasca una busta da parte di suo fratello o almeno così mi pare di capire dalle poche parole che mi sussurra all’orecchio. Suo fratello è anche il miglior amico di Giovanni. Magari è un suo messaggio! Fremo per la curiosità ma non posso guardare di che si tratta se non fra qualche ora. Una volta a casa, senza avvertire mamma del mio arrivo, sguscio direttamente oltre il cancelletto che porta ai campi e mi rifugio dietro al capanno degli attrezzi. Spalle contro la parete cerco di dominare l’affanno che mi ha presa. Finalmente posso aprire la busta. E’ una lettera:

“Gentilissima Signorina Bianca,

con questa lettera desidero esprimervi il forte sentimento che ormai da troppo tempo tenevo celato nel mio cuore. Non posso più tacere. Non mi sento avventato nel dire che Voi siete tutta la mia vita e che qual’ora non voleste offrirmi il vostro Conforto d’Amore mi sentirei un uomo senza alcuno scopo. Attendo con ansia un qualsiasi vostro cenno ma Vi prego non spezzatemi il cuore.

Il vostro eterno servitore

Tavolati Antonio.”

“Tavolati Antonio!?” Stizzita lascio cadere le mani con tutta la lettera contro la sottana. “Tavolati Antonio. Ma è proprio il fratello di Rita! Non capisco. Come può essere! E’ il miglior amico di Giovanni! Sono inseparabili!” - Mi sento una stretta alle tempie.“Com’è potuto accadere!?”“Non posso credere di essermi immaginata tutto. Non posso!”

12. La confessione

Questo pomeriggio, nell’ora del silenzio, aleggia una strana atmosfera fra noi sorelle. Una certa indolenza ci ha afflosciate sui gradini davanti casa. Io me ne sto semisdraiata con la testa appoggiata al portoncino e le braccia rigide a sostenermi la schiena tormentata dal bordo del gradino di mezzo. Tengo gli occhi chiusi e combatto l’ansia contando de lucine rosse che vedo nelle palpebre quando il sole è troppo forte. Dalia è stesa con la testa sulle mie gambe e Franca, a catena, sonnecchia abbandonata su di lei ma, con un piede piantato a terra, sembra sorreggere questa insolita scultura umana. Non ce la faccio più, devo fare qualcosa. Mi alzo di scatto sbilanciando Dalia che riesce a non cadere puntandosi con i gomiti: “Ma che ti prende!”. Franca si accartoccia e apre gli occhi accecata dal sole. Mi guarda stordita riparandosi con la mano. Io giro su me stessa e comincio a correre. “Ma che fai! Dove vai!” Urla Dalia sottovoce. Io rallento e rispondo: “E’ troppo caldo, vado in chiesa che lì è fresco!”. Franca d’istinto comincia a seguirmi. E Dalia: “Ma non puoi! Devi avvertire mamma!”. Io affretto la mia corsa e voltando l’angolo vedo Franca che, sconfitta, torna indietro. Ora cammino spedita. Mi sento la testa così piena che non riesco a pensare. Prendo la strada del cimitero e poco a poco rallento. Il cuore si fa più silenzioso, il respiro più calmo. Davanti alla chiesa penso: “Mi devo confessare, è l’unica cosa!”. Entro. Non c’è nessuno. Gesù mi guarda dalla croce ma non sembra poi così arrabbiato. Mi avvicino al confessionale più piano che posso ma muoversi in una chiesa vuota è come “andar di notte”, qualcuno ti sente comunque. Mi guardo intorno, scivolo all’interno di quel rifugio di legno intarsiato e subito mi inginocchio. Pochi istanti dopo sento i passi di Don Pietro che si avvicina: “Dimmi figlia, liberati dai peccati”. Io mi trovo impreparata. Non dico nulla. Mi schianto le mani in faccia e non voglio più essere lì. Trattengo il fiato. Con un occhio spio il cristo in croce da una fessura ed ancora non mi sembra arrabbiato, anzi mi guarda con tenerezza… così fuggo via lasciando oscillare sguaiatamente i battenti del confessionale. Dio sa già tutto e mi vuol bene lo stesso.

11. La comunione

Io e le mie sorelle maggiori cantiamo nel coro. Sediamo sui primi banchi a lato dell’altare che sono rialzati rispetto agli altri. Giovanni è sempre l’ultimo ad entrare in chiesa. All’estremo rintocco della campana che chiama messa si apre il portone e lui immancabilmente appare, nessun segno della croce, toglie il cappello e sta tutto il tempo lì, in piedi, spalle contro il muro. Questa domenica la chiesa è compostamente affollata, come sempre. Io mi sento tesa, penso che lui mi stia guardando o forse lo spero soltanto. Quand’è il momento della comunione, mentre tutti si portano verso l’altare dove il prete dispensa la particola, io rimango in ginocchio sul mio banco, mi raccolgo in preghiera e chiedo perdono a Dio per quello che sto per fare. Dopo un po’ alzo gli occhi e, in fondo alla chiesa, vedo la fine della processione così mi incammino e attraverso tutto il corridoio centrale per accodarmi alla fila. Dopo pochi istanti Giovanni chiude il corteo e lì comincia la nostra marcia nuziale. E’ vicinissimo, posso avvertirne il respiro. Il fruscio dei suoi vestiti ad ogni passo. Io mi sento addosso una corona di fiori. Mi sudano le mani. Non c’è più nulla intorno a noi ma d’improvviso mi trovo davanti al sacerdote e fatico a contenere un sussulto. Torno in me. Prendo la particola e girandomi non evito lo sguardo del mio sposo… siamo marito e moglie. Me ne torno al banco con in bocca un corpo di Cristo che non merito e nel cuore una gioia che mi rende la peggiore peccatrice.

10. La casa blu

C’è un bel tratto da percorrere per raggiungere la chiesa. Quasi mezza isola. Dopo la prima curva c’è la gradinata d’ormeggio dei Visentin ma ancora nessuna barca è attraccata. In lontananza però si possono vedere Giovanni e suo fratello, sulla riva della casa blu al di là del canale, che slegano il loro sandalo* e prendono il largo. Giulio è il più giovane fra i due e voga davanti dando speditezza al loro viaggio, Giovanni voga dietro e dà la direzione e la stabilità. Il padre non li accompagna; non frequenta più la chiesa da quando la moglie, giovanissima, è morta di malattia sotto i suoi occhi ed è rimasto solo con i due figli a vivere in quella casa così lontana da tutto e con ettari ed ettari di terreno da coltivare. La casa blu sta in un’isola nell’isola e nessuna donna l’ha mai più frequentata. Con la morte della Signora Giovanna si era trasformata da quello che tutti consideravano un paradiso terrestre ad un monastero di campagna dove il lavoro era la vita.


*Sandalo: imbarcazione longilinea e di modeste dimensioni tipica della Laguna Veneta.

9. La Messa

Domenica c’è messa. Tutto il paese vestito a festa si muove in un’allegra processione verso la chiesa. Io e le mie sorelle ci litighiamo i nastri migliori per raccogliere i capelli ma stavolta il più carino l’ho preso io. E’ di un bel rosa pallido, perfetto con le rifiniture del mio vestito e di gran effetto sui miei capelli bruni. Tutte e cinque camminiamo a braccetto una accanto all’altra in ordine di età anche se Norma e Iole tengono un’andatura molto pacata ed elegante com’è proprio di due vere signore, mentre Dalia e Franca si fanno i dispetti e si agitano senza sosta come la coda di un girino … ed io nel mezzo, un po’ signora e un po’ bambina, tengo unite più generazioni.

8. Il saluto

Tutti i giovedì pomeriggio Giovanni prende il battello delle due e va in città per le riunioni settimanali del circolo di caccia. Io sbircio dalla finestra del piano di sopra. Da dietro la tenda lo vedo passare diretto verso l’ approdo, con quell’aria così distinta propria più di un dottore che di un contadino quale lui è. Veste un completo chiaro ed un cappello a tesa larga, il suo incedere è lento, i suoi passi distesi e silenziosi. Ha il portamento fiero di un soldato e la delicatezza di un poeta. Ogni volta che percorrere il tratto di strada sotto casa mia, abbassa la tesa del cappello davanti agli occhi, senza voltarsi e senza perdere il ritmo calmo del suo andare.
Arriva il battello, lui sale. Io in lontananza lo seguo con gli occhi e aspetto ancora. Lui sta sempre nella parte scoperta della barca, in piedi e sembra guardare verso di me ma non sono sicura, da così distante non riesco a vedere la direzione del suo sguardo così sposto la tenda e continuo a seguirlo mentre si allontana. Quando non riesco più a vederlo mi sporgo dalla finestra, è lontanissimo ma in quel momento, ogni volta, lui alza il braccio come se mi stesse salutando e lo tiene alzato finché scompare all’orizzonte. Solo allora io rispondo al suo saluto nella segreta speranza che, anche solo per un attimo, mi abbia vista.

7. Il corteggiamento

Come sempre il tempo cambia le cose ed anche i sogni impossibili a volte, poco a poco, diventano realtà. E’ passato un anno ed ora noi ragazze più grandi, d’estate, quando il buio arriva tardi, abbiamo il permesso di fare un giro per un’oretta dopo cena e quando dico “un giro” intendo letteralmente un giro dell’isola, camminando lungo la riva. E’ proibito allontanarsi dal percorso principale, specialmente se in compagnia di qualche ragazzo. La cosa susciterebbe scandalo in tutto il paese. Comunque durante queste uscite serali spesso accade che i ragazzi ci si affianchino e ci prendano a braccetto per scambiare due parole. Alcuni di loro sono fin troppo libertini ed allungano le mani abbracciandoci tutt’intorno alla vita ma ognuna reagisce in modo diverso a questi atteggiamenti, io, ad esempio, li rimetto subito al loro posto e mi allontano indignata ma altre non fanno che civettare come colombelle in calore. Mi danno proprio sui nervi! Non è da persone serie! A volte c’è anche Giovanni nel gruppo dei ragazzi ma lui non fa mai alcun gesto azzardato, semplicemente, camminando, si accosta a me molto lentamente, come per non farsi notare, come se fosse capitato lì solo casualmente e quando riesce a fare qualche passo al mio fianco, senza che un altro ragazzo più sbrigativo mi rubi il braccio, lui guarda dritto davanti a se, solo diritto davanti a se. Ed io zitta cammino temendo che qualcuno possa sentire il battito del mio cuore o vedere il calore che m’invade la faccia. Quando torno a casa corro subito allo specchio ma tutto sembra normale, forse nessuno ha notato niente.

6. Giovanni

Io ho più di qualche pretendente che mi corteggia però nessuno mi interessa davvero. Sono tutti un po’ troppo spavaldi per i miei gusti… ma in mezzo a loro c’è un ragazzo, beh non è proprio un ragazzo, è molto più grande di me, ha 25 anni e si chiama Giovanni. Si distingue fra tutti. Ha una luce negli occhi, una dolcezza che è stranamente perfetta con la sua prestanza fisica. Il suo sguardo splende di un’energia che ti cattura e se lo incontro per un attimo mi sento trafitta e disarmata. Lui però è profondamente timido. Osserva tutto senza parlare, come se la vita che gli gira intorno fosse un libro e lui lo stesse leggendo attentamente. Sembra così distante che non riesco nemmeno ad immaginarmi accanto a lui… ma di notte, nel sonno, la mente si perde e lo vedo mentre fra tutte sorride proprio a me e mi prende la mano per portarmi via da qui.

5. I ragazzi

Quand’è tardo pomeriggio, la domenica, i ragazzi usano fare il giro dell’isola e noi ragazze ce ne stiamo davanti casa a chiacchierare. E’ quasi un tacito accordo per incontrarsi pubblicamente, ragazzi e ragazze, ma il tutto si risolve in qualche rapido sguardo d’intesa o qualche fuggevole parola. La vita di paese è così, tutti sanno tutto di tutti e non c’è alcuna possibilità di sfuggire all’occhio matriarcale di quest’isola dove nulla rimane privato a meno che non avvenga entro le mura di casa e coperto da un fittissimo silenzio.
Per noi ragazze questo è il momento più bello della settimana. Prima di uscire ci prepariamo: qualche elastico sapientemente posizionato e qualche fazzoletto accartocciato nei punti giusti a renderci più prosperose, dei bei pizzicotti per dare un po’ di colore alle guance, qualche morso alle labbra inumidite ci fa da rossetto, pochi tocchi con le dita a sistemare le onde dei nostri capelli ed eccoci pronte per farci ammirare dai nostri pretendenti ma con la massima disinvoltura e naturalezza se non anche un vago distacco che ci rende misteriose ed irraggiungibili ma al contempo irresistibili. La sfida è riuscire a sgattaiolare fuori senza farsi vedere da papà che sicuramente avrebbe qualcosa da ridire sul nostro aspetto… ma ci riusciamo sempre, anche perché in genere a quell’ora papà riposa nell’amaca sotto agli alberi di fico.
I ragazzi passano a piccoli gruppi in base all’età ed ognuno sceglie la ragazza da corteggiare ma si sa che alcune, le più carine, le più popolari, suscitano l’interesse di molti di loro ed è proprio così che cominciano i guai.

4. Il lavoro

Qui in isola tutto si svolge lentamente, le nostre vite vanno col ritmo della marea. Certo si lavora di gran lena ma noi siamo contadini ed è la terra che scandisce il tempo del lavoro, che è un tempo calmo fatto di fatica, sudore, rumori di foglie e di frutti caduti. Ci alziamo all’alba perché nei campi ci si va col fresco. Mio padre spesso mi prende di peso dal letto e mi posa sulla sedia della cucina che ho ancora gli occhi chiusi. Mamma mi da un bacio e mi mette in mano una scodella di latte ancora tiepido di mungitura così apro gli occhi e guardo dalla finestra la luce, appena accennata, del giorno che fatica ad arrivare. Poi un bel respiro, vestiti comodi, e si esce per la raccolta.

3. La mamma

Mamma è una gran donna. Tanto minuta nel corpo quanto sconfinata nell’animo. E’ il centro della nostra famiglia e se non ci fosse saremmo tutti perduti, a cominciare da mio padre. Porta i capelli raccolti dietro, in un piccolo nido castano. La pelle dorata dal sole, gli occhi piccoli ma pieni di sentimenti. Severa e complice con tutti noi, ci ama ed io lo sento.

Qualche anno fa, mi ricordo – avrò avuto undici anni – giocavo sulla riva insieme a Franca, la piccola. La facevo camminare lungo il muretto che costeggiava il canale, tenendola per mano e a lei piaceva perché così raggiungeva quasi la mia stessa altezza e si sentiva grande. Procedevamo insieme per un bel pezzo, poi le lasciavo la mano, facevo un passo indietro, le rivolgevo le braccia e lei si lanciava, io la prendevo al volo e ritornavamo lungo la riva ripercorrendo lo stesso tratto, poi di nuovo sopra al muretto e da capo. Questo era il gioco.
All’ennesimo ripetersi di quel percorso sempre uguale, la piccola era di nuovo pronta a saltare, ma un pesce guizzò nel canale ed il mio sguardo lo afferrò. Un attimo dopo Franca era in acqua. Nemmeno il tempo di pensarlo ed era già successo. Franca si era sbilanciata all’indietro forse distratta anche lei dal quel guizzo.
Ancora oggi ho in mente i suoi occhi spalancati e confusi.
Rimasi immobile per un istante finché udii un pianto forte e continuo emergere dall’acqua. Mi sporsi dal muretto e la vidi lì, tutta bagnata e piena di fango, seduta nella secca. Ringraziai Dio per quella secca che non la fece annegare e per quel fango molle che non le fece male.
Scesi nel canale e la presi in braccio cercando di rassicurarla. In quel momento, quando capii che Franca stava bene, il mio primo pensiero fu: “Mamma mi ammazza!”.
Per fortuna mamma e papà stavano raccogliendo i carciofi insieme a Norma e Iole.
Entrai in casa come un ladro e portai Franca in camera, le tolsi i vestiti e con uno straccio bagnato la ripulii dal fango, quando all’improvviso una voce dietro di me:
“Cosa hai fatto!?”.
“Zitta Dalia! Aiutami, invece! Prendi dei vestiti puliti per Franca!”.
Lei avanzò un passo verso il comò ma subito si fermò:
“Prima dimmi cosa hai fatto!”
Io, stizzita:
“L’ho persa in acqua, va bene! L’ho persa, sei contenta adesso?! Ora dammi una mano, e se lo dici a mamma non so cosa ti faccio!”.
Alla fine riuscimmo a sistemare Franca prima che rientrassero i miei, lavai persino tutti i suoi vestiti sporchi e li riposi nell’armadio ancora bagnati nella speranza che asciugassero presto, al riparo da occhi indiscreti. Ma la cosa più impegnativa fu convincere Franca a non parlare di quel brutto episodio.
All’imbrunire tornarono i miei. Mamma si accorse subito che c’era qualcosa di strano:
“Ma stamane Franca non aveva il vestito a fiori?”.
Io, fingendo di non sentire, rimasi zitta e scivolai nell’altra stanza, il mio cuore era un treno! Poi silenzio, sentivo il mio sangue che saliva alla faccia. Poi di nuovo rumore di stoviglie e di faccende domestiche. Forse l’avevo passata liscia… forse.
Nei giorni successivi tutto sembrò andare per il meglio…
Mamma aveva capito che l’avevo combinata grossa ma, intuendo il peso enorme dei miei sensi di colpa, aveva saputo tacere. Da lì in poi non ricordo un giorno in cui non abbia pronunciato le parole: “Ti raccomando Franca!”
Mamma è una gran donna. Guardo lei e capisco il senso della mia vita. So cosa voglio essere e lo sarò.

2. Le sorelle

Norma, la grande, è rimasta dentro. Legge. Si interessa e si impegna in tutte quelle cose politiche che io non conosco e non capisco. Iole, anche lei dentro, ricama sul tombolo. Per me lei resterà sempre un mistero, così burbera, avara, gelosa, si potrebbe dire quasi cattiva, non fa altro che téssere ad una velocità vertiginosa intrecci complicatissimi di filo bianco che diventano angeli e madonne delicati e fragili come lei non è.
Noi invece siamo qui. Le tre sorelle più piccole. Bianca (che sono io), Dalia e Franca. Quindici, tredici e sette anni. Siamo le più vicine d’età e le più legate anche se per Franca, devo ammetterlo, ho un affetto particolare. Per lei non sono solo una sorella, ma anche una mamma, una maestra, una compagna di giochi, insomma, sono un po’ il suo punto di riferimento. In pratica l’ho cresciuta io e forse è proprio per questo che il nostro legame è così forte, ma non solo. Fisicamente ci somigliamo molto. A dire il vero tutte noi sorelle ci somigliamo, ma io e lei di più. E pure i nostri caratteri sono simili: ci piace ridere, amiamo lavorare in campagna, siamo energiche, di molte parole, di poche pretese e per niente complicate. Niente ci fa paura e la vita ce la sentiamo fremere dentro. Dalia invece ha un carattere un po’ strano, è spavalda e permalosa ed è sempre arrabbiata con quei suoi capelli crespi e neri, indomabili alla moda del momento. Cerca attenzione tutta per sé e lamenta sempre qualche malessere per garantirsela. Teme la morte. Io invece so che vivrò per sempre.
“Ragazze? La merenda!”
In campagna anche la merenda si fa presto.

venerdì 11 giugno 2010

1. L'isola di Bianca

Estate. Domenica pomeriggio. C’è un sole che spacca le pietre in quest’isola silenziosa delle due. Dopo i vestiti della festa, la messa, la visita al cimitero ad onorare i nostri morti e un pranzo pieno di tutti noi e del nostro chiasso, adesso, alle due della domenica pomeriggio, è l’ora del riposo. Non passa nessuno su questa riva incandescente, neanche una barca su quest’acqua immobile. Qui in campagna tutto inizia presto e finisce presto ma noi giovani donne con le onde nei capelli non siamo stanche e stiamo qui sedute sui gradini della casa, appollaiate come uccelli sui fili della luce. Aspettiamo, zitte, tra una spinta e un dispetto urlato piano, che la voce di mia madre spezzi il silenzio di quest’ora che non passa mai.