mercoledì 21 luglio 2010

36. Il sigaro

Oggi la padrona della locanda mi ha messo in cucina a lavare piatti. Non me l’aveva mai chiesto. Ho lavato stoviglie da sola per quattro ore e ancora non mi sono bastate per trovare un ordine ai miei pensieri. Nascono l’uno dall’altro come erbacce infestanti con il solo effetto di inaridirmi l’animo. Le mie mani invece sono molli e raggrinzite dall’acqua. Sono stanca, ma l’idea di tornare a casa non mi conforta. Percorro il solito tratto di strada con un’andatura ai limiti dell’immobilità ma il portone di casa mi si piazza davanti al naso in un attimo. Decido di entrare dal cancelletto dell’orto così allungo un po’. Nell’aria un leggero profumo che già conosco. Voci maschili giungono da dentro casa. Forse qualche parente, o qualche amico di mio padre… Mi fermo sulla soglia e ascolto senza farmi vedere.
“Non so con quale coraggio Vi presentiate in questa casa!”
E’ la voce di mio padre ed è compostamente alterata.
“Non mi presento con coraggio Signor Toso, ma con la dignità di un uomo onesto che sa cos’è il lavoro e che sa riconoscere il valore di una persona quando la vede, come lo riconosco in Voi”.
Non credo alle mie orecchie! Mi accosto alla finestra e spio da un angolino: Giovanni è a casa mia, Gesù aiutami! Continuo ad origliare.
“Un uomo onesto non insidia una creatura ingenua come la mia Bianca”.
Ah, ora sono la sua Bianca!
“Mi trovate d’accordo Signore. Ed io sono un uomo onesto. La Vostra Bianca è una creatura pura, la più pura. Per questo io porto il massimo rispetto a lei e a Voi che l’avete cresciuta così”
Mai visto tanta fermezza.
“Rispetto?! L’isola parla di tutt’altro!”
Di male in peggio…
“Eh si. L’isola parla. L’isola parla sempre, e troppo. La fame di pettegolezzo offusca il buon senso delle persone. Ma Voi non siete un uomo fra tanti e so che non farete l’errore di confondervi con la gente comune…”
“Continuate…”
“Sono qui per proporvi un affare. Mio padre comincia a sentire il peso dell’età che avanza e dopo tanti anni dalla morte di mia madre ha espresso la volontà di assumere una persona che ci possa aiutare nelle faccende domestiche purché si tratti di una ragazza a modo, discreta e ambiziosa di rendersi utile.”
“E con ciò?”
“Io avrei pensato a Bianca”
“Mia figlia in una casa di soli uomini!?!”
“Sua figlia in una casa di soli gentiluomini! La mia famiglia, dopo la Vostra, è tra le più rispettate dell’isola, e onorerà il lavoro di sua figlia con un lauto compenso. Credo sia meglio che servire ai tavoli di una locanda frequentata da gente di ogni genere per pochi spiccioli!”
Mio padre sembra vacillare. Non era preparato a questo. Per quanto lui lo neghi è sempre stato piuttosto sensibile al fruscio del denaro.
Giovanni, sul finire della sua proposta, estrae dalla tasca della sua giacca una scatola di legno stretta e lunga e la apre porgendola a mio padre: “Se credete potremmo suggellare i nostri accordi con un pregiato sigaro toscano che mio padre mi ha raccomandato di offrirvi in segno di gratitudine qualora aveste accettato.”
Mio padre sembra stregato da quel nero e irregolare cilindretto: “Ma… ma questo è un moro*! E’ rarissimo!”
Giovanni sorride ed insiste: “Tagliate, Vi prego!”
Mio padre passa un dito sulla scatola con aria sognante ma subito rinviene: “Accetto a una sola condizione.”
“Dite!”
“Dovrete trovare il modo di chiudere la bocca a quest’isola pettegola e di ripulire il buon nome della mia famiglia.”
“Lo troverò, mi servirà solo un po’ di tempo ma lo troverò.”
Mio padre taglia il toscano con gran soddisfazione. Il patto è stretto. Non avrei mai sperato di vederli fumare un sigaro insieme. A dire il vero nemmeno sapevo che Giovanni fumasse. .. né che avrei dovuto lavorare per lui!


*Moro: varietà di sigaro prodotta a mano ed in quantità limitata. E’ l'unica che prevede un solo sigaro all'interno di una confezione di legno con incisione ed ha un prezzo piuttosto elevato.

mercoledì 14 luglio 2010

35. La zuppa

Un bel respiro e scendo. Sono già tutti a tavola. Uno strano silenzio svuota le bocche ingorde di zuppa. Hanno cominciato senza di me, tranne mamma che fa solo ora il primo boccone. Occupo l’unica sedia vuota, ma non è il mio solito posto. Ora accanto a papà ci sta Iole, che mi guarda con aria di sfida. Io però non lo mollo quell’odioso sguardo compiaciuto, finché cede alla cucchiaiata successiva e riporta gli occhi nel piatto. Osservo tutte le facce intorno a questo tavolo: Norma, Iole, mio padre, Dalia, Franca, mia madre. Una famiglia col capo piegato dal peso della mia colpa. Non faccio che rigirare la zuppa nel piatto e mi chiedo: chi sono io qui? A giudicare da quello che vedo non sono che un ospite indesiderato. Proprio ora che qualcuno vede in me una donna, non sono più né figlia né sorella ma un estranea a cui è stato concesso un pasto che nemmeno riesce a mangiare. Potevo essere di più … e invece ora non sono niente per nessuno.
Tutti i piatti sono vuoti, tranne il mio. Papà ci congeda: “Potete alzarvi” e le figlie obbedienti spariscono, ma non io. Rimango incollata alla sedia nella speranza che qualcosa accada: “Mamma… ti aiuto a sparecchiare?” Lei trattiene in bocca il suo primo pensiero, poi da uno sguardo vagamente supplichevole a mio padre che però non muove un ciglio: “No, Bianca, oggi siete libere, faccio io…” Libere? Libera di fare cosa? Di riflettere? Ancora? “Per favore mamma, lascia che ti aiuti”. Mio padre scatta in piedi spingendo la sedia dietro le ginocchia, appoggia le mani al tavolo e le carica di tutto il suo peso. Io raccolgo le mie forze pur sapendo che sto sbagliando tutto: il modo, il momento, il luogo. “Papà io non ho fatto niente di male…” Lui rimane piantato al tavolo ma alza la testa puntandola su di me e spara: “Oh sì che l’hai fatto, l’hai fatto eccome!” Io non do retta agli occhi di mia madre e continuo a cercare una soluzione: “Va bene, se tu credi questo allora dammi una punizione! Farò quello che vorrai!” Lui chiude gli occhi per ritrovare il senno e con una voce che tradisce ancora il suo risentimento: “No. Non c’è una punizione che aggiusti le cose. Tu sai quello che devi fare. E lo farai! Quando avrai chiuso la bocca all’isola, si vedrà”. Io non replico. Lui se ne và. Mentre riconduco lo sguardo a mia madre vedo Franca nascosta a mezza scala che mi lancia un amaro sorriso. Forse sono ancora una sorella. “Dai vieni ora, aiutami a sparecchiare…” e forse sono ancora una figlia.

domenica 11 luglio 2010

34. Muti sproloqui

Sento voci di sotto. Devono essere tornati.
Ora mamma comincerà a preparare il pranzo e tutte le figlie daranno una mano, ma non io. Io devo riflettere. Così ha ordinato papà. Perciò me ne sto qui sdraiata a contare le crepe del soffitto, e rifletto. Mi chiedo se qualcuno si prenderà mai la briga di parlarmi chiaramente o se dovrò passare il resto della vita ad immaginare quali meschine maldicenze abbiano tanto sconvolto mio padre. O se dovrò aspettare che qualche amica me le racconti, sempre che io riesca, un giorno, ad uscire da questa stanza! Rifletto. Un battibecco di pensieri mi si accapiglia nella mente: che farò adesso? Chi o cosa sbloccherà questa situazione? Io? Mio padre? Mia madre? Il tempo? Oppure Giovanni manterrà la sua promessa? “Non temere, sistemerò tutto io.” - Per un attimo ritrovo il suo abbraccio - E come lo farà? Quanto dovrò aspettare? Mi sembra di vivere tra l’incubo e il sogno. E se ora mi svegliassi e tutto svanisse? Non so se ne sarei più sollevata o più amareggiata. Non ne vengo a capo del perché tanta felicità debba portarsi appresso tanta frustrazione! Tutto potrebbe essere così semplice se solo la gente sapesse rispettare i sentimenti puri… invece no. Evidentemente gettare fango addosso agli altri dà l’illusione di essere meno sporchi... Eppure non è passato molto tempo da quando mi sentivo immune da qualsiasi malignità... Tutti conoscevano la mia serietà di ragazza per bene, perfettamente degna del cognome che porto. La famiglia Toso, detta “Timorato”*, ha sempre goduto di una fama irreprensibile, mai nessuno scandalo ha macchiato la sua storia… fino ad oggi. L’isola si nutre di queste cose più che di polenta e pesce: si attacca al minimo appiglio e ti divora. In un attimo tutto ciò che resta è un nome da bisbigliare all’orecchio, bocca dietro alla mano.
Un trambusto di scalini saliti di corsa arresta il flusso concitato dei miei muti sproloqui. Franca appesa alla maniglia compare giusto il tempo di quattro squillanti parole: “E’ pronto in tavola!” e subito richiude. Poi un ripensamento. Riapre quel tanto che basta ad infilare la testa: “Ma che fai ancora in camicia da notte!?! Sbrigati!!” e di nuovo scompare.
Io d’istinto obbedisco e mi vesto pur sapendo che scendere quelle scale non mi porterà niente di buono. Forse era meglio se mi lasciavano qui, del resto non ho nemmeno fame.





*In isola spesso ai cognomi venivano affiancati dei soprannomi tramandati di generazione in generazione per distinguere i vari rami delle famiglie.

giovedì 8 luglio 2010

33. Ferma, in piedi... e muta

Eccomi sveglia. Mi stiracchio su questo 2 di Novembre. I morti.
Oggi la chiesa sarà più affollata del solito ed un via vai di fiori e rosari solcheranno il viale del cimitero per l’intera giornata. Tutti, ma proprio tutti, porgeranno un saluto ai defunti.
In chiesa potrò rivedere Giovanni. Non fosse per questo darei le spalle a questo giorno e mi rimetterei a dormire.
Mentre perdo tempo dietro a questi inutili pensieri su ciò che farei se i miei desideri contassero qualcosa, lascio cadere distrattamente la testa sulla mia guancia destra e mi accorgo di essere sola: “Ma che ore sono!?” Le piccole si sono alzate prima di me? Deve essere successo qualcosa!
Un colpo di reni, rapido più della mia volontà, mi tira fuori dal letto e mentre ancora incespico nel cercare di infilare le pantofole avverto dei passi frettolosi salire le scale. Rimango lì, ferma, in piedi. Un corpo ancora molle di sonno su un animo teso d’apprensione. Attendo. I passi zittiscono. Un lento movimento della maniglia precede lo schiudersi della porta. E’ mamma. Fa capolino tenendosi per metà fuori dalla stanza: “Ah, sei sveglia allora!” Io rimango ancora lì, ferma, in piedi… e muta. “Noi stiamo andando alla messa…”. Io sempre lì, sguardo fisso ai suoi occhi. “Papà ha ordinato che tu stia a casa…” Io lì, non un cenno, non una parola.“…a riflettere…”. Deglutisco, senza muovere un muscolo. “Ciao Biancaspina, ci vediamo più tardi…” Mamma abbandona un sorriso stentato prima di chiudersi dietro la porta.
Ricado a sedere sul letto, afflosciata nella mia camicia da notte come un pesante sacco vuoto. Ecco qua. E’ arrivato il momento… condannata a reclusione forzata… e per aver fatto che? Per essere nata in questa stupida isola linguacciuta!
Mi sento un macigno sul petto e sotto il suo peso crollo stesa lì dove sedevo. Mi abbraccio la faccia per nascondere lacrime che non voglio versare e perché quando piango divento brutta e nessuno mi deve vedere. Neanche tu, Gesù, che sei rimasto con me mentre tutto il paese sta venendo da te.

lunedì 5 luglio 2010

32. Il pennuto dal lungo becco

Ci prepariamo per la notte. Sembra che per Franca e Dalia la festa non sia ancora finita, non riescono ad accantonare l’eccitazione di questa serata. Le guardo mentre si rincorrono intorno al letto blaterando tutta una serie di stupidaggini che alimentano la loro incontrollata ridarella. Occhi lucidi di lacrime allegre, gote rosse di giochi agitati. Mamma le ha già richiamate bonariamente. Due volte! Mi sa che alla terza cambierà tono... Le inseguo con gli occhi nei loro giri sfrenati e rimango anch’io contagiata dalla loro spensieratezza.
“Ora baastaaaa! Devo salire?” Eccola. Puntuale come previsto.
Franca e Dalia si infilano nel letto spinte a calci da quell’urlo spazientito … ed io con loro. Un soffio alla candela e: “Buonanotte…”
Nel buio qualche residuo di frenesia guizza ancora fra le due piccole anguille: “Ehi Bianca… ma com’è che stasera alla sagra te ne stavi tutta sola? Non ti sei divertita?” Bisbiglia sonoramente Dalia. Io non rispondo ed ingrosso il respiro fingendo di dormire. “E poi a un certo punto non ti si è più vista …dov’eri finita?” Continua Dalia con la sua solita impertinenza. “Ma lasciala in pace! Sempre a impicciarti tu!” Franca di nome e di fatto.
Io attendo paziente che tutto ritorni a tacere ma più avanza la notte più il silenzio si fa insopportabile e dilata il rumore dei miei pensieri. Nessuna distrazione mi può più salvare. Le immagini, i suoni, le sensazioni, si fanno presenze ingombranti che prendono corpo davanti ai miei occhi. Nell’anima ho mille soldati che lottano incauti fra gioia e dolore, certezza e dubbio, presente e futuro… fra sogno e destino.
Mai un uomo mi si era avvicinato tanto, mai l’avevo permesso… mi sembra di non avere alcun controllo su ciò che accade… tutto è così nuovo, inaspettato… al di la di ogni mia supposizione ma stranamente radicato in me… L’abbraccio di Giovanni mi ha preso le viscere e ne ha fatto voli di rondine. E’ questo l’Amore? E’ questa l’unione fra un uomo e una donna? D’un tratto un morso mi azzanna il cuore e rimango atterrita come un topo in trappola: “Quando un uomo e una donna si vogliono un bene sincero Dio, con un fischio, convoca il pennuto dal lungo becco…” mi raccontava mamma da bambina…
Porto le mani alla pancia ed ascolto.
Ti prego buon Dio taci, non emettere suono…

sabato 3 luglio 2010

31. Verso casa

E’ tardi. Mamma ci chiama a raccolta e ci incamminiamo verso casa. Papà si trattiene ancora tra canti stonati al fiato di spirito finché Don Pietro non congederà anche gli ultimi con un bicchierino della sua grappa e: “Il Signore sia con voi”.
La riva è scandita dai lumi di cera che scortano il rientro di ogni famiglia tra euforici avanzi di risa e il tenue sciacquare del mare. Il freddo comincia a farsi sentire e gli aliti sembrano sbuffi di nebbia ma il cielo è ornato da un velo di stelle che indosso qui mentre cammino.
Non devo pensare a domani. Lo voglio quest’attimo eterno... ma so che alla fine di questo pensiero mi sentirò sbattere dietro le spalle il legno pesante del nostro portone.
Bam!

venerdì 2 luglio 2010

30. La sagra

Tutta l’isola si accalca nel campo della chiesa in uno sciame che si estende anche lungo la riva. La scena si ripete uguale ogni anno: il fumo, il fritto, il vino. Le braci riscaldano l’aria che, densa, è scalfita da gesti ubriachi. Chi canta, chi beve, chi mangia. Le donne si stringono in piccoli cerchi di sagge e vivaci comari: stavolta dibattono su quale sia il modo più semplice di cuocere i cavoli evitando il fetore.
Sono più di due ore che siamo qua ed è già buio. Io me ne sto appoggiata al muretto e guardo la festa che folleggia negli occhi di tutti ma non riesco a vedere Giovanni. Cerco disperatamente la sua sagoma fra le tante ombre fiocamente illuminate. Papà, combattuto tra l’esigenza di controllarmi e la voglia di lasciarsi andare, dopo qualche esitazione ha ceduto allo stravizio e dal secondo bicchiere di rosso già non mi guarda più. Mamma scambia chiacchiere moderate, sembra tranquilla, quasi avesse la certezza che sua figlia farà la cosa giusta. Eppure non merito tanta fiducia perché ho un unico pensiero impigliato nel cuore: stasera potrebbe essere l’ultima occasione per vederlo … Non c’è, non c’è! Ma perché mi abbandona così?… ed io che sto qui a cercarlo come una stupida!
Avvilita mi allontano dalla confusione e vado nell’unico luogo deserto, la loggia antistante la chiesa. Siedo sul basamento che raccorda le colonne del portico dando le spalle allo scuro giardino. Mi prendo le ginocchia nelle braccia e ci appoggio il mento. “Ma dove sei!” Un groppo mi insidia la gola ma ricaccio il pianto negli occhi. La faccia è accaldata, le dita gelate. D’un tratto un pesante calore mi avvolge e mi toglie il respiro. Resto immobile. Due grandi mani si adagiano ai miei gomiti e un abbraccio stringe l’abbraccio che già avevo di me stessa. Mi sento al sicuro: “Giovanni…”. Il suo torace mi veste la schiena come un cappotto. Il suo collo tocca il mio collo. Poche parole sussurrate all’orecchio: “Non temere, sistemerò tutto io.”
Non ho più paura di niente. Lui si scioglie da me. Rimane il calore.
Non speravo sarebbe stato tanto dolce ricevere l’Amore di un uomo.